Ho ascoltato il racconto "Cattedrale" (che dà il titolo all'omonima raccolta di Raymond Carver) su "Ad Alta voce", letto da Fausto Paravidino (voce molto particolare e adattissima al personaggio narrante). Tempo di ascolto: 45 minuti.
C’era questo cieco, un vecchio amico di mia moglie, che doveva arrivare per passare la notte da noi. Gli era appena morta la moglie. E così era andato a trovare i parenti di lei in Connecticut. Aveva chiamato mia moglie da casa loro. Avevano preso accordi. Sarebbe arrivato in treno, un viaggio di cinque ore, e mia moglie sarebbe andata a prenderlo alla stazione. Non l’aveva più visto da quando aveva lavorato per lui un’estate a Seattle, dieci anni prima. Comunque, lei e il cieco si erano tenuti in contatto. Registravano dei nastri e se li spedivano per posta avanti e indietro. Non è che fossi entusiasta di questa visita. Era un tizio che non conoscevo affatto. E il fatto che fosse cieco mi dava un po’ di fastidio. L’idea che avevo della cecità me l’ero fatta al cinema. Nei film i ciechi si muovono lentamente e non ridono mai. A volte sono accompagnati dai cani-guida. Insomma, avere un cieco per casa non è che fosse proprio il primo dei miei pensieri."
★★★☆☆
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Il romanzo "L'acqua del lago non è mai dolce" di Giulia Caminito, vincitore del premio Campiello 2021, è una storia di mancato riscatto sociale.
Un romanzo che per molti aspetti fa pensare alle storie raccontate da Ammaniti, Avallone, D'urbano.
Mi vengono in mente "Ti prendo e ti porto via", "Acciaio", "Acquanera".
Nonostante l'immenso senso di tristezza che trasmette, questo romanzo mi è piaciuto molto. L'ho trovato molto introspettivo.
I personaggi sono ben delineati e caratterizzati.
La protagonista a momenti infastidisce per i comportamenti che tiene. Certo, la vita non l'ha aiutata. Nata in una famiglia povera, perseguitata dalla sfortuna e dalle disgrazie, ha provato a riscattarsi pensando che lo studio potesse cambiarle la vita. Purtroppo più che una vita propria, vive secondo le aspettative della madre Antonia, al contrario di lei, forte e decisionista, con idee ben chiare.
Vicende come quelle narrate purtroppo accadono. Il romanzo ci permette di venire a conoscere dinamiche familiari e sociali inimmaginabili a chi vive in famiglie, non dico benestanti, ma economicamente autosufficienti.
Un romanzo di denuncia che svela alcune verità sulla società attuale: non basta essere bravi a scuola, costruirsi una valida base culturale per garantirci un buon lavoro e stabilità economica.
Ho apprezzato molto la scrittura originale di Chiara Caminito.
Curiosità: il nome della protagonista si scopre solo al termine del libro ed è una vera sorpresa. Sembra quasi l'ennesima presa in giro della vita nei suoi confronti.
Ho scelto una scuola difficile dove insegnano le lingue morte che nessuno usa e mi dico che l'ho fatto per le mie amiche, ma la verità è che mi porto dentro una cosa piccola piccola, una ghianda, un insetto, che è la voce di mia madre, a cui devo dimostrare di non essere da poco.
Quel noi, che sta là non visto, mi comanda, per me crea castelli in aria e paludi."
★★★★☆
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Insegnante di lettere e latino al liceo, Viola Ardone, classe 1974, si è documentata per tre anni prima di scrivere "Il treno dei bambini".
Nel secondo dopoguerra 10.000 bambini meridionali provenienti da famiglie molto povere, di cui circa 3.000 di Napoli, furono inviati al Nord, prevalentemente in Emilia Romagna, dai genitori per essere inseriti in nuove famiglie (alcuni per brevi periodi, altri per sempre).
Ad organizzare i viaggi ed accogliere i bambini, famiglie comuniste, per solidarietà.
Viola Ardone romanza la storia di Amerigo Speranza dei "quartieri spagnoli", 7 anni, figlio unico di Antonietta, nubile e indigente che, dopo non poche titubanze, carica su uno di questi treni il figlio.
I bambini che sono stati aiutati dalle nuove famiglie, chi rimanendo per sempre con loro, chi rientrando a casa, continuando a ricevere cibo e sostegni per studiare, sono cresciuti istruiti e molti di loro si sono fatti una posizione nella società.
Di Amerigo non vi svelerò nulla, perché la sua é una storia che vale la pena di leggere.
Un racconto molto commovente, riflessivo, narrato in prima persona da Amerigo, prima bambino e nell'ultima parte adulto.
Curiosità: Viola Ardone presenterà al Salone del libro di Torino 2021 il suo ultimo romanzo "Oliva Denaro", la cui protagonista porta il nome anagrammato della scrittrice.
"Tolgo lo spago, apro il pacco piano piano e resto a bocca aperta: è un violino. Un violino vero!"
★★★★☆
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Donatella di Pietrantonio, abruzzese e odontoiatria di professione, potrebbe scrivere qualunque storia, anche la più banale, e saprebbe renderla interessante, talmente è bella la sua scrittura.
"Borgo Sud" rappresenta il sequel dell’"Arminuta", bellissimo romanzo in cui l’autrice racconta una storia di abbandono e di riscatto.
Nel primo romanzo, vincitore del Premio Campiello 2017, l'autrice narra la storia di una ragazzina tredicenne che viene rimandata alla famiglia d'origine, dopo aver vissuto fin da piccolissima con persone che ha sempre creduto essere i suoi genitori. Si trova così ad affrontare una vita dura, in un ambiente povero, grezzo e molto diverso da quello in cui viveva. Al termine del romanzo si capirà il motivo del suo rientro nella famiglia d'origine. Non è però necessario averlo letto per affrontare "Borgo Sud".
Nel secondo romanzo, l'Arminuta, termine dialettale traducibile in «la ritornata», è cresciuta, ha studiato ed ora vive a Grenoble in Francia. Una telefonata dall'Italia la costringe a ritornare al paese natale. Durante il viaggio di ritorno affioreranno i ricordi e ci racconteranno quanto accaduto dopo aver lasciato l'Arminuta ragazza.
Borgo Sud esiste. È un quartiere di Pescara, un quartiere povero, di pescatori.
Isolina esiste ed ha ispirato l'omonimo personaggio di "Borgo Sud".
Il romanzo ha conquistato il secondo posto del premio Strega 2021.
★★★★☆
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Se non avete letto ancora nulla di Murakami, non iniziate da "Abbandonare un gatto". Vi fareste un'idea sbagliata.
Io adoro Murakami, mi piace perdermi nei suoi romanzi infinitamente lunghi, ma mai noiosi, scoprire i suoi mondi inventati, affezionarmi ai sui personaggi.
Con questo racconto, brevissimo, Murakami ha voluto ricordare il padre morto alcuni anni fa, raccontandone la vita e fatti accaduti quando l'autore era un bambino.
Si tratta di uno scritto molto semplice. Si legge in un paio d'ore.
Di questo racconto si é detto che é molto importante, perché mai Murakami aveva scritto della propria vita. É vero che in "Abbandonare un gatto" Murakami parla per la prima volta del padre, ma ne "L'arte di correre" aveva scritto molto di sé.
Il memoir è illustrato da Emiliano Ponzi.
Lo consiglio solo a chi già conosce Murakami e non vuole perdersi nulla di ciò che ha scritto. Qualche pillola di saggezza c'è e interessanti sono anche gli aiku citati, scritti dal padre.
Leggere "Abbandonare un gatto" senza aver mai letto nulla dell'autore, potrebbe avere l'effetto di non invogliare alla lettura dei suoi romanzi. Niente di più sbagliato. In questo racconto non c'è nulla del realismo magico che lo caratterizza.
Credo che "Abbandonare un gatto" sia stato sopravvalutato dalla critica oppure io non sono riuscita ad entrare in sintonia con questo suo diverso stile di scrittura.
"Da tanto tempo avevo in mente di scrivere qualcosa di adeguato su mio padre, ormai scomparso, ma ho lasciato passare gli anni senza nemmeno provarci. Non è facile parlare di qualcuno della propria famiglia, scegliere da dove e in che modo iniziare (io per lo meno non riesco a farlo a cuor leggero). Così mi sono tenuto dentro questa intenzione per molto tempo, come una spina rimasta in gola. Finché, per caso, mi sono ricordato che una volta, da bambino, ero andato con mio padre ad abbandonare un gatto su una spiaggia; ho cominciato a scrivere da lì, e il racconto è venuto fuori da solo, molto più facilmente di quanto avessi pensato."
★★☆☆☆
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"Gli ultimi giorni di quiete" è un romanzo di Antonio Manzini, la cui scrittura trae spunto da un fatto realmente accaduto.
Manzini spiega di aver incontrato molti anni fa un signore sconosciuto che gli raccontò un fatto agghiacciante, accadutogli alcuni anni prima: l'incontro in treno con l'assassino di suo figlio, uscito di carcere dopo aver scontato una pena di pochi anni, nonostante il terribile crimine commesso.
Manzini rimase colpito da questa confessione e per anni immaginò quali potessero essere state le reazioni del padre, della madre e dello stesso assassino in seguito a quell'incontro. Ora, a distanza di anni dall'episodio, scrive "Gli ultimi giorni di quiete".
Nora, mentre sta tornando a casa in treno riconosce, seduto nello stesso vagone, Paolo Dainese, il ragazzo che sei anni prima, durante una rapina nel tabacchino di famiglia, ha ucciso Corrado, il suo unico figlio. Da quel giorno la sua vita e quella di suo marito non è stata più la stessa. Il loro rapporto si è svuotato. In comune ora hanno soltanto il dolore per la perdita del figlio.
Nora non si capacita di come possa essere accaduto che un assassino, dopo pochi anni dalla condanna, sia libero di circolare e di rifarsi una vita. Trova ingiusto che ciò che a suo figlio è stato impedito, sia, per legge, consentito al suo assassino.
Dal momento in cui è avvenuto l'incontro, Nora ha in mente soltanto di mettere in atto una sua giustizia personale.
Il marito Pasquale, dopo aver appreso dalla moglie la notizia, cerca anche lui un modo per risolvere la questione.
Tre sono i personaggi: Nora la madre di Corrado, Pasquale il padre di Corrado e Paolo l'assassino di Corrado.
Tre sono i punti di vista, tre le diverse reazioni alla vicenda.
Manzini è bravissimo a farci entrare in tutti e tre i personaggi, attraverso un profondo scavo psicologico. Tutti e tre hanno ragione, dal loro punto di vista.
La voce narrante si mescola ai pensieri in prima persona dei protagonisti, rendendo il lettore ancora più coinvolto.
Il personaggio che mi è piaciuto di più è Pasquale, perché alla fine riesce a svoltare, andare avanti.
Ho trovato Nora un personaggio tristissimo.
Paolo mi fa pena.
Tante le domande sollevate, nessuna risposta, perché non c'è una soluzione, un giusto punto di vista.
L'epilogo è inaspettato. Il romanzo è profondo, intenso, coinvolgente.
Antonio Manzini ex attore, scrittore conosciuto soprattutto per aver creato il personaggio di Rocco Schiavone, dimostra con questo romanzo di avere doti letterarie al di là del genere giallo.
"Un uomo è condannato per sempre, allora? Fine pena mai? A cosa servono i processi, le leggi, la galera? Lui aveva capito, aveva capito tutto. Gli errori commessi, la voglia di ricominciare, lasciarsi alle spalle quello che era una volta. Voltare pagina e provare ad essere un uomo migliore. Uno che lavora, che porta a casa uno stipendio, che magari fa anche un figlio che...
Un figlio.
Quello gli hai tolto. E nessuno glielo restituirà più. Quindi forse sì, fine pena mai per me, per la donna e anche per suo marito. Non c'era uscita né soluzione. Un solo gesto inchioda quattro persone per sempre, a quel giorno di marzo di quasi sei anni prima. La sua vita s'era fermata insieme a quella di Corrado Camplone, di sua madre e di suo padre."
★★★★☆
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